Milano, gennaio 2016

I lunedì (Santi) dei Sublimi.

di Giampaolo R. Capisani

Il riferimento testuale di fondo di questo intervento, è il libro di Denis Poulot: Question sociale. Le Sublime ou le travailleur parisien tel qu’il est en 1870, et ce qu’il peut etre. (Questione sociale. Il Sublime o il lavoratore parigino tale come è nel 1870, e quello che potrebbe essere), Maspero, Parigi, 1980, mai tradotto in italiano, con una importante introduzione di Alain Cottereau. Si tratta di un saggio che verrà pubblicato nell’aprile 1870, ovvero circa un anno prima dell’atto rivoluzionario parigino de: La Comune. L’autore nella sua vita aveva scalato tutti i gradi di promozione e riconoscimento sociale, di quelli che aveva definito come “ouvriers vrais” (i veri operai) cioè gli operai “volonterosi”: la scuola di arti e mestieri a Chalon, poi trasferitosi a Parigi, era divenuto capo-montatore, capo-squadra, capo-reparto, per diventare infine imprenditore nel settore delle macchine utensili e della bulloneria. (En passant doveroso: ma quanti bulloni e rivetti avrà la Tour Eiffel?)

Nel preambolo al suo testo, l’autore stabilisce una precisa gerarchia e suddivide i lavoratori in otto “tipi” differenti che sono:

1) L’ouvrier vrai.

2) L’ouvrier.

3) L’ouvrier mixte.

4) Le sublime simple.

5) Le sublime flètri et descendu.

6) Le vrai sublime.

7) Le fils de Dieu.

8) Le sublime des sublimes.

I primi tre vengono definiti come operai in senso generico; ma ad esempio il terzo tipo, quello misto è: di buona natura, ma debole, perché si lascia facilmente coinvolgere. I successivi tre rappresentano il “sublimismo”: sporco, disgustante, brutale, grossolano, ignorante, istintivo e bestiale. Il quinto tipo tuttavia, descrive un carattere alterato, inflaccidito, con tratti visivi di senilità prematura e che può giungere ad abbassarsi ed umiliarsi, per fare cose non di sua competenza. Infine gli ultimi due esprimono un “sublimismo” diciamo superiore, dotato di una certa istruzione, di una intelligenza, un attività ed un’energia, impiegate però nella demolizione e non alla creazione. Ora, gli “operai” sono quelli che hanno adottato ed introiettato il sistema padronale di valori, ostili ai principi ed alla Rivoluzione del 1848, nonché alla costituzione di associazioni di mestiere, per contro ci sono invece i “sublimi”, cioè quegli operai insottomessi, o meglio che hanno rifiutato di sottomettersi e che sono sul piano sociale immorali, cioè irrispettosi anche di qualsivoglia morale civile e familiare.

Il testo di Poulot si presenta anzitutto come un violento pamphlet anti-operaio, scegliendo come bersaglio privilegiato le attitudini e i comportamenti costitutivi del “sublimismo”. L’autore sostiene, che nella Parigi della seconda parte del XIX° secolo, non meno del 60% degli operai fossero dei “sublimi”; nel suo settore (quello delle macchine utensili e della bulloneria) la proporzione rasentava addirittura l’85%! In altri termini egli li considerava come lo Zeitgeist epocale (il segno dello Spirito del tempo). Inoltre l’autore insiste sul fatto che essi si percepivano affrancati da ogni regolamento di fabbrica e disciplina sociale: dal loro punto di vista “la partita è aperta” (p. 407); addirittura spesso controllavano loro il mercanteggiamento cioè il ritmo, del lavoro quotidiano. L’introduzione della tecnologia venne adottata per ridurre il più possibile, coscienti di non poterlo fare completamente, l’iniziativa operaia, soprattutto quella dei più qualificati, quella altrimenti detta dei “sublimi”.

Ma le nuove macchine e gli utensili si rompevano facilmente ed occorreva dare il tempo agli operai di ripararle, altra occasione per questi ultimi di fare numerose e lunghe pause (p. 225). Le macchine utensili resteranno affidate a quegli stessi operai fino a dopo il 1860, quando la tendenza s’invertirà, aprendo la via alle mansioni “dequalificate”.

Emile Zola utilizzerà il testo di Poulot, che riporta modi di dire e l’argot (dicesi dell’insieme di termini particolari in una specie di ripiegamento semantico come forma di protezione dal resto della società – in inglese si direbbe slang – caratteristico del mondo carcerario, della malavita, della prostituzione, etc.) della “classe laboriosa” (e ovviamente come è stato per questo anche ovviamente “classe pericolosa”) che sembrerebbero raccolti sugli “zinchi” (banconi) delle barrières dei dazi doganali, posti attorno alle città, dove il vino costava meno e dei cabaret; il grande scrittore adotterà parecchi termini citati da Poulot, per inserirli nel romanzo L’Assommoir (letteralmente L’ammazzatoio, oppure Lo scannatoio, cioè una mescita di vino d’infima categoria). E’ stato ipotizzato dalla critica, che il fine ultimo dei due autori fosse quello di denunciare la miseria del popolo, nella speranza di migliorarne le condizioni. Nell’intento di Poulot c’era sicuramente tuttavia anche quello di stabilire una “diagnostica patologica” (p. 123) e perseguendo la metafora medica, proporre: “non un sistema, ma un insieme di misure” (p. 122); “un trattamento” (p. 123) per risolvere la “questione sociale”. Il risultato finale appare tuttavia contraddittorio: da un lato Poulot “vorrebbe denunciare e nel contempo non riconoscere le pratiche operaie, che sembrano sbarrargli la strada” (dall’introduzione di Cottereau, p. 41).

Prima digressione semantica: sul concetto di sublime.

Nel 1674 Nicolas Boileau, il grande teorico del razionalismo e del classicismo, aveva tradotto in francese il testo di un trattato del I° secolo d. C.: Del Sublime, erroneamente attribuito al retore greco Longino (o Pseudo-Longino); il testo si diffuse poi anche in Inghilterra e venne approfondito da intellettuali come Addison, Akenside ed Edward Young, ma soprattutto dal giovane Edmund Burke, nel suo saggio: Inchiesta filosofica sull’origine delle nostre idee del sublime e del bello pubblicato nel 1757 (trad. it.: Palermo, 1978).

Citiamo due passaggi dal testo di Burke per determinare meglio il concetto:

“Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte di sublime, ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Dico l’emozione più forte, perché sono convinto che le idee di dolore sono molto più forti di quelle che riguardano il piacere”…

“Nel chiudere questa visione d’insieme della bellezza sorge naturale l’idea di paragonarla col sublime, e in questo paragone appare notevole il contrasto. Gli oggetti sublimi sono infatti vasti nelle loro dimensioni, e quelli belli al confronto sono piccoli; se la bellezza deve essere liscia e levigata, la grandiosità è ruvida e trascurata; la bellezza deve evitare la linea retta, ma deviare da essa insensibilmente; la grandiosità in molti casi ama la linea retta, e quando se ne allontana compie spesso una forte deviazione; la bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra e tenebrosa; la bellezza deve essere leggera e delicata, la grandiosità solida e perfino massiccia”…

Appare chiaro quindi, che se occorre “trascendere il bello“, tutte le regole e le leggi estetiche e del gusto, messe in campo per realizzare il bello stesso, intralcerebbero il genio creativo, che deve invece infrangerle per elevarsi al grande, al patetico, al sublime, cioè definire quello Burke definisce delightful horror: l’orrendo che affascina!

Sul piano della definizione il termine deriva dal latino sublimis (variante sublimus) complemento di sub “sotto” e limen “soglia”, “che giunge fin sotto la soglia più alta”, ma anche “che sale obliquamente”. Significati: 1) Altissimo, più elevato di ogni altro; 2) nobile, eccelso; 3) manifestazione della potenza irresistibile della natura nel suo più alto grado. Il verbo derivato è sublimare: 1) esaltare, elevare spiritualmente; 2) in psicoanalisi, trasformare e trasferire i propri impulsi sessuali o aggressivi in altri di ordine superiore; 3) in fisica e in chimica, passare dallo stato solido a quello gassoso, saltando la fase di stato liquida.

Seconda digressione storica: dalle Jacqueries a una dimensione urbana e pre-industriale.

Esiste un retroterra secolare di sollevazioni e rivolte popolari, che precedono ed inducono l’affermazione dei comportamenti dei “sublimi“, ma che accomunano questi ultimi a quel passato in un medesimo spirito. L’obiettivo di fondo è piuttosto chiaro: il rifiuto passivo e/o attivo dell’obbedienza ad una autorità, il non rispetto delle norme sociali, la disobbedienza, la ribellione, per certi versi una scelta radicale nella sottrazione di sé, verso l’esodo, l’emigrazione, una rapida mobilità. Le testimonianze che possediamo dei lavoratori stagionali e itineranti che siano americani (gli hobos) e/o sindacalizzati come i “wobblies” organizzati nell’International Workers of the World (IWW), o anche che siano europei: mondine, raccoglitori di frutta, di olive, vendemmiatori (l’epopea de la Boje in pianura padana con i Mandati-in-bianco, cioè senza il nome sul mandato, compilato dopo l’arresto dai carabinieri che riguardò non meno di 40.000 agitatori contadini) o anche le fughe degli schiavi russi verso le terre cosacche, tutte assumono morfologie diverse, ma l’ontologia è la medesima: il rifiuto! Inoltre la forza di questi segmenti di lavoratori, risiedeva nella capacità d’imporre la loro presenza/necessità in un ciclo stagionale ed economico, insomma uno “stato di necessità” dei proprietari, che li rendeva contrattualmente più forti e potenti, in modo paragonabile alle qualità ed alla coscienza che gli operai qualificati o professionali che qui chiamiamo “sublimi”, esprimevano…

Occorre fare un passo indietro, per cercare di comprendere come da una relazione di tipo schiavistico, si sia passati ad un regime salariale. Alcuni storici hanno tentato (senza riuscirci!) di serializzare e indicizzare le centinaia di “emozioni” (sinonimo di troubles) termine che identifica le rivolte popolari, spontanee, non organizzate, spesso effimere e di breve durata, durante l’Ancien Regime. Questo aspetto problematico rende lo spessore del fenomeno… comunque in questa sede appare utile elencare le principali “rivolte della plebe” generalmente rurali, sporadicamente urbane… ma è come sgranare un rosario: Grande Jacquerie (da Jacques Bonhomme) del 1358; la rivolta fiorentina dei Ciompi del 1378; la Peasent’Revolt del 1381, scatenatasi nel Kent e nel Sussex inglese con il suo seguito di Lollardi, di Livellatori (1607) ferocemente opposti alle “enclosures” cioè alle privatizzazioni delle terre e veementemente partigiani dei beni comuni e del suffragio universale maschile e dei Diggers (1649) i primi “squatters” della storia (slogan di John Ball: “Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov’era allora il gentiluomo?”); la rivolta Hussita (1419) in Boemia; le Deutscher Bauernkrieg (guerre dei contadini tedeschi) del 1524; la Jacquerie dei Croquants (Croccanti) del 1593, in un continuum di sollevazioni popolari che si protrarranno fino ai primi decenni del Settecento, assumendo localmente diverse denominazioni spesso folkloriche come: i Va-nu-pieds (da Jean va Nuds-pied, letteralmente: i “sandalati”) del 1639 in Normandia, o ancora i Chasse-voleurs cioè i cacciatori di ladri-imbroglioni (costituitisi contro l’introduzione della gabella sul sale, che al tempo era monopolio reale) e i Tard-avisèes del 1707, che si opposero all’imposta di bollo su matrimoni e battesimi. Come già accennato le micce potenziali di una sollevazione popolare, erano plurime e diversificate in un ampio spettro di cause, che andavano dalla contestazione della legittimità della “manomorta” dei nobili, cioè l’impossibilità per un servo di trasmettere i propri (scarsi) beni al resto della famiglia dopo la sua morte, che venivano invece incamerati dal nobile, all’avversione assoluta a un sistema fiscale basato sulla “poll-tax” (Do you remember Margareth Tatcher?) cioè una tassa fissa pro-capite, a prescindere dal sesso, dall’età e dal reddito: bambino, una quota; scapolo, una quota; famiglia di quattro persone, quattro quote; dall’aumento delle gabelle sul sale o l’abolizione di una loro esenzione; all’aumento ricorrente delle tasse sul vino; dall’appesantimento o l’introduzione di nuove “corvées“; fino alla richiesta di un riconoscimento politico e che infine tutte convergevano nella rivendicazione dell’abolizione dei privilegi nobiliari e della schiavitù. Spesso questi dispositivi fiscali erano arbitrari, ma com’è ovvio venivano anche adottati per finanziare le guerre del tempo. Diverse rivolte si svilupparono all’interno di un veicolo religioso, che esprimeva quindi eresie e dissenzienze di carattere confessionale, (i Dolciniani ne sono e rappresentano il prototipo)… d’altra parte in quei secoli non avrebbe potuto essere diversamente. Inoltre ho volutamente omesso tutto ciò che di simile andava scatenandosi nel calderone slavo, cioè le ricorrenti rivolte contro il sistema feudale e la servitù della gleba, quasi sempre guidate dalla cosaccheria: quella d’Ivan Bolotnikov (del 1606), di Bogdan Khmelnitsky (1648), di Stenka Razin (1667) e infine quella di Emelian Pougatchev (1773).

Concludendo questa digressione, ciò che desidero rimanga in chi sta leggendo, è la genealogia di un diritto di resistenza: l’obiettivo iniziale di una rivolta era sempre tattico, ma quello finale era sempre strategico: l’abolizione della schiavitù. (Per un approfondimento storico, chi vuole può leggere le opere di due maestri: Boris Porchnev, Les Soulèvements populaire en France au XVII° siècle, Paris, 1972; trad. it. Jaca Book, Milano, 1998; Yann Moulier Boutang, De l’esclavage au salariat, PUF, 1998; trad. it. Manifestolibri, Roma, 2002).

Terza digressione di storia comparativa: dai “canuti” ai “sublimi”.

Ma prima di tornare ai nostri “sublimi”, occorre insistere sul fatto che ormai dopo la Rivoluzione Industriale e quella Francese, lo schiavismo e le regole feudali erano divenuti anacronistici (per lo meno in Europa), i contadini diverranno operai e le sollevazioni rurali non avranno più modo e luogo di esistere: le contraddizioni ed i conflitti si trasferiranno nei centri urbani. Il nuovo livello dello scontro sarà quello della rivolta urbana, una presa d’atto appunto anche dell’invenzione dell’urbanistica, condotta a Parigi dalle gigantesche ristrutturazioni del barone Haussmann, con ovvie funzioni anti-barricate e anti-rivoluzionarie. Questo new step of exploitation e preceduto da esso, l’invenzione del “mercato” (testo ortodosso di riferimento: Karl Polanyi, The Great Transformation, Beacon Press, Boston, 1944 – trad. it.: La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974) si svilupperà su cinque direttrici:

1) la nuova dislocazione e concentrazione dei centri produttivi guidata da esigenze logistiche (prossimità delle miniere, nesso carbone-vapore, porti e snodi commerciali);

2) l’emigrazione massiccia degli ex-servi della gleba ormai contadini, verso centri abitati spesso di nuova fondazione, ma anche verso le città tradizionali, cioè quel gigantesco fenomeno demografico denominato “urbanizzazione”;

3) il concentramento di capitali che abbandonano il fondiario e divengono finanziari, per sostenere la trasformazione industriale ed il passaggio dalla manifattura, all’industria;

4) l’adozione lenta ma inesorabile e poi sempre più rapida, di nuove invenzioni e dispositivi tecnici: nel tessile la “navetta volante” di John Kay (1733), la “spinning-jenny” di Hargreaves (1765), la “mule-jenny” di Arkwright (1779) fino ai telai Jacquard; nella siderurgia i forni Bessemer, Martin e Siemens; l’adozione massiccia del vapore e la sua applicazione ai trasporti: (Watt e Boulton) ferrovie e navigazione;

5) l’emergere di nuovi comportamenti spesso individuali, ma anche collettivi di protesta, in uno spettro che va dalla banale allergia, al rifiuto esplicito della disciplina dell’officina, fino al sabotaggio atto che deriva dal termine sabot, cioè agli zoccoli di legno che soprattutto nell’Europa settentrionale, venivano buttati dentro i telai per interromperne la produzione, fino alla distruzione vera e propria delle macchine (il Luddismo inglese).

Il clima del tempo annunciava quello della Bohème, dei poeti “maledetti”, degli artisti “decadenti”, del rifiuto del conformismo borghese, degli amori adulterini, impossibili o venali e dell’alienazione produttiva.

A Lione, l’attività produttiva prevalente divenne quella della lavorazione della seta (circa la metà dei lavoratori della città) organizzata in strutture ancora semi-corporative, una piramide alla base della quale c’erano i “canuti” (e le “canuse”) dal nome delle bacchette di legno utilizzate, per svolgervi il filo srotolato dal baco, prelevato da una tinozza di acqua bollente (le mani dei “canuti” erano segnate e deformi a causa delle continue scottature). L’insieme delle attività legate alla produzione della seta, assumevano il nome di “La Fabrique” .

I “canuti”, se preferite chiamateli setaioli, si dichiararono in stato di agitazione nell’estate del 1831 con una serie di rivendicazioni diciamo “canoniche”, come la riduzione della giornata lavorativa da 13-15 ore giornaliere ad 8, (con buona pace del Ministro Poletti…), l’aumento del salario e l’istituzione di un suo livello minimo, la limitazione del lavoro infantile e ovviamente contro i telai Jacquard…che spossessavano e de-possessavano il savoir-faire operaio.

Il loro slogan era: “vivere liberi lavorando o morire combattendo”, ma anche quello meno eroico: “meglio soffrire il caldo mangiando, che prendere freddo lavorando”. Ovviamente la rivolta verrà repressa nel sangue dopo aspri combattimenti nell’inverno dello stesso anno, con decine di morti sia tra le file dell’esercito, che di quelle dei “canuti” che si erano impossessati delle armi in una caserma prossima ai loro quartieri.

Aneddoto. I “canuti” come reminiscenza comunale, avevano diritto a mezzo litro di vino al giorno (come i soldati)! Con una legge del 1843, questo diritto venne ridotto a 46 cl. (ogni due “canuti” serviti, la somma era di 46 più 46 = 92 cl.) per arrivare al litro, ne mancavano 8 cl., che vennero chiamati “il bicchiere del padrone”. Per imporre questa nuova misura di 46 cl. venne inventato il pot lyonnais, cioè una bottiglia di vetro povero e dal fondo spesso, che misurava quei, centilitri, ma il cui costo rimase invariato rispetto al mezzo litro. Può sembrare un dettaglio, ma non lo è. La vetreria poco fuori Lione che produceva i pot, verrà rilevata nel 1966 da Antoine Ribaud (BSN) che riuscendo ad adottare un’abile strategia di packaging, s’imposseserà prima degli yoghurt (Gervais-Danone) e poi trasformerà il gruppo in un leader mondiale dell’agro-alimentare (attualmente secondo, solo dopo Nestlè).

Molti “ex-canuti” convergeranno poi in una società operaia lionese, detta dei “Voraci”, dando vita all’ennesima rivolta tra il 1846-1849, con l’obiettivo di lottare contro il pot adottato dai cabaret, mentre nelle mescite e nelle barrières vigeva sempre il litro; ancora una volta vennero rivendicati il salario minimo ed il rifiuto del cottimo. Nella genesi dei “Voraci” rimarranno le radici comuni con i “canuti“, molti rivendicheranno il passato dei sanculotti; per quanto riguarda invece l’origine del nome esso deriva dalla concezione di essere tutti legati da un Devoir (un Dovere, ma per estensione sono chiamati così, anche i compiti scolastici). Essi si percepivano compartecipi di legami mutualistici, da cui i termini: devoir mutuel = devoirant = voraces.

Appare evidente il fatto che nei “canuti” e nei “voraci“, la dimensione collettiva delle rivendicazioni superava quella individuale e alludeva ai principi di formazione del socialismo a venire… nei “sublimi” invece la rivolta era puramente individuale, cioè risiedeva nei comportamenti, in quello che è stato definito molto tempo dopo come la soggettività operaia. Un colpo bene assestato a un trapano, a un tornio, o piuttosto a una fresa, ti garantiva tre ore o anche un giorno di “fermo macchina”, senza necessità di legittimazione. Per non parlare della fragilità di un telaio Jacquard, con cui si producevano (e si producono ancora oggi) broccati, damascati e pizzi, basato su un sistema di cartoni perforati peraltro assai vulnerabili all‘umidità o agli atti di vandalismo. Questa innovazione avrebbe ispirato Charles Babbage, quando utilizzò quell’idea per adattare il principio delle schede perforate, in una macchina in modo che generasse operazioni matematiche, nacque la “Macchina analitica”, cioè la bisnonna degli attuali computer.

I lunedì (Santi) dei Sublimi.

Torniamo tuttavia ai “sublimi”, nel suo testo Denis Poulot ci parla di un certo operaio chiamato Tisserand (in italiano Tessitore) che aveva scritto un motivetto cioè una canzonetta, il cui refrain era:

 

Enfants de Dieu, crèateur de la terre,

Accomplissons chacun notre métier

Le gai travail est la sainte prière

Qui plait a Dieu, ce sublime ouvrier.

 

I “cattivi operai”, cioè i “sublimi”, avevano dirottato e deriso il senso di questo motivo moralizzatore che nelle altre strofe esaltava il patriottismo, l’obbedienza e la modestia:

 

Fils de Dieu, crèateur de la terre,

Accomplissons chacun notre métier

Le gai travail est la sainte prière

Ce qui plait à Dieu, c’est le SUBLIME ouvrier.

 

Il messaggio fu subito chiaro. Non era tanto Dio ad essere “sublime”, ma gli operai essi stessi; cioè i soli creatori di ricchezza attraverso il proprio lavoro. L’argot parigino aveva ancora una volta compiuto la sua missione: deridere il potere padronale e opporsi alla disciplina di fabbrica.

I primi giornali proto-anarchici e proto-socialisti, avevano titoli evocatori: “La rivincita del forzato”, “Il grido del forzato”, “Il risveglio del forzato”. Sempre dal testo di Denis Poulot, si viene per esempio a conoscenza che a Vierzon (nella Cher) il Direttore della Sociètè Francaise de Materiel Agricole, camminava per i reparti con un revolver in mano e sbraitando che non avrebbe esitato a servirsene se gli operai l’avessero minacciato.

A Rouen (in Normandia) il regolamento precisava: “è passibile di una multa di 0,25 Franchi:

1) l’operaio che trascina scarti di produzione fuori dal proprio sacco o per terra.

2) Quello che si laverà o pettinerà o luciderà le sue scarpe, allontanatosi prima dell’ultimo quarto d’ora che precede l’uscita.

3) Quello che si troverà senza permesso in un punto in cui il suo lavoro non l’ha chiamato”.

Generalmente i gabinetti vengono sorvegliati: alle Usines Renault, la direzione aveva fatto tagliare la parte bassa delle porte delle toilette, per sorvegliare più facilmente il “tire-au-flanc” (che in argot significa una persona che cerca di sottrarsi e sfuggire a una corvée, termine desueto per definire obblighi anzitutto lavorativi, ma anche quelli morali e familiari, cioè quello che le mogli impongono ai mariti con “la disciplina della fame”). Alcuni storici fanno risalire a questo periodo storico l‘invenzione degli orinatoi (francese “urinoir“) come forma di velocizzazione del soddisfacimento dei bisogni corporali, ormai di massa… come ci ha giustamente insegnato il Ready-made di Marcel Duchamp del 1917, intitolato Fontaine o La Madone des toilettes.

A lavorare, anzi “au bagne” (intendendo per questo il sinonimo di “bagno penale” cioè “galera”) si entrava alla tenera età si 8-9 anni. Nel 1841 alcune istanze umanitarie proporranno di regolamentare il lavoro infantile, ma l’allora Ministro del Commercio dichiarerà: “L’ammissione dei fanciulli nelle fabbriche dall’età di 8 anni, è per i genitori un mezzo di sorveglianza, per i bambini l’inizio di un apprendistato, per le famiglie una risorsa”.

Comunque da quanto fino ad ora descritto, la filosofia dei “sublimi” si presenta pertanto come una forma di resistenza alla pressione padronale, che vuole aumentare le cadenze, stimolare/incentivare la produttività, disciplinare e “mettere al passo” ciascun operaio; come accadrà nel resto dei paesi europei, si arriverà al punto di mobilitare i concetti di ordine, ma in primo luogo quelli di igiene e pulizia.

La risposta sarà quella dei Santi lunedì, cioè la consuetudine di non andare a lavorare il lunedì, che divenne una pratica consolidata e massificata, che secondo alcuni storici, risalirebbe addirittura al Medio Evo, ma che in questo momento storico si generalizzerà ancora di più, trasformando questo giorno feriale in un sinonimo di diritto al “riposo” oscurando la domenica. I Santi lunedì saranno un comportamento distintivo dei “sublimi”.

Se gli studi sui “sublimi” sono rari e frammentari, quelli sui Santi lunedì sono più numerosi, mi limito in questa sede ad elencare i principali:

Robert Beck, “Apogée et declin de la Saint Lundi dans la France du XIXeme siècle”, in: Revue d’histoire du XIXeme, n° 29, 2004.

Alain Caillaux, Vie et mort de la Saint Lundi, aux dix-neuvième siécle, Maitrise en histoire, Université de Paris VII, 1977 (non pubblicata).

Edward P. Thompson, “Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism”, in: Past and Present, n° 38, dicembre 1967, pp. 56-97.

Douglas A. Reid, “Der Kampf gegen den Blauen Montag 1776 bis 1876”, pp. 265-296, in: Detlev Puls (dir.), Wahrnehmungsformen und Protestverhalten. Studien zur Lage der Unterschichtem im 18, und 19, Jahrhundert, Francoforte, Suhrkamp, 1979.

Jean-Pierre Navailles, “A’ la Saint-Lundi tout est permis”, in: L’Histoire, n° 343, juin 2009.

Lars Magnusson, “Proto-industrialisation, culture et tavernes en Suède (1800-1850)”, in: Annales. Economies, sociétés, civilisations, tomo 45, n° 1, gennaio-febbraio 1990, pp. 21-36.

 

Le principali forme di resistenza dei “sublimi” erano tre:

1) Prima forma di resistenza al potere padronale: un’estrema mobilità.

Sul piano psicologico la capacità di non farsi influenzare, né condizionare… oggi si direbbe “fidelizzare” dal padronato; che si fonda sulla determinazione (cosciente? Incosciente? Difficile dire) di una grande capacità di smarcamento, anche dai vincoli di carattere morale, nei termini che Deleuze percorre nelle sue opere (nel suo concetto-hub di esodo) ma sdu questa strategia di difesa, vedasi anche: Henry Laborit, Eloge de la fuite, Editions Gallimard, 1985.

In buona sostanza l’operaio qualificato/professionale francese del XIX° secolo è per definizione nomade; è riluttante a fissarsi e rimanere in un posto di lavoro, è refrattario agli incentivi, le sue competenze e le sua abilità lavorative gli conferiscono la potenza dell’autovalorizzazione e dell’autodeterminazione, ovvero la possibilità di spostarsi spesso; egli fa una sua ragione di vita quella di cambiare continuamente sia le affettività, che i posti di lavoro; non solo, per una minima scusa e per un nonnulla cambia boita (un francesismo, che sta per “scatola”, sinonimo di posto di lavoro). Su questo piano i “sublimi” somigliavano ai contadini del nord-Italia che cambiavano cascina a San Martino, ma forse ancora di più erano simili agli operai sovietici, perché come questi ultimi: “protestavano con i piedi”!

2) Seconda forma di resistenza al potere padronale: la volontà e la libertà di disporre del proprio tempo, il piacere dell’evasione, dell’utilizzo del “tempo liberato”, di “rifiutare la sirena della fabbrica”.

Come già detto i “sublimi” non andavano abitualmente a lavorare il (Santo) lunedì, ma cominciavano la loro settimana lavorativa il martedì, ma in casi sporadici, come quella dei tipografi iniziava il giovedì (data la ricaduta spesso settimanale del giornale). Il padronato fece di tutto per impedire questa pratica e mise in campo un sistema di richiami – ammende – multe, che non sortirono mai il benché minimo effetto sugli “assenteisti”, anzi suscitarono ammirazione negli altri segmenti operai (i vetrai, i lattonieri, i saldatori, i portuali, etc.). D’altra parte il “sublime” era pressoché certo di trovare fin dal giorno successivo al suo licenziamento, un impiego in un luogo adiacente. Quanto agli scioperi, circa la metà di essi si svolgevano in primavera.

3) Terza forma di resistenza al potere padronale: l’opposizione alla corsa al rendimento, al cottimo ed ai salari di miseria. Utilizzo degli artifizi e dei trucchi (les ficelles) del mestiere e della conoscenza operaia.

L’operaio qualificato sente ed “annusa” meglio degli altri il lo spessore ed il peso della congiuntura. Possiede sempre precisamente il polso del suo lavoro, tiene d’occhio ed è capace di valutare anche gli stock di magazzino ed i carnet di ordinativi; sa ad esempio che se entro la mattinata non arriveranno determinate forniture e pezzi, potrà andarsene a casa prima dell’orario. E’ capace di mettere a frutto ogni dimenticanza; ogni manchevolezza della direzione e del padrone, benchè minima, verrà da lui utilizzata a proprio vantaggio. Se un “sublime” si accorge che il padrone è in ritardo per una consegna, abbandona l’officina con la sua equipe (il paragone con la sala operatoria, non è peregrino! Essa rappresenta un limite, non è e non sarà mai taylorizzabile!) Il padrone sa che non può contare sugli “operai veri” o su dei “fayot” (fagioli secchi, dicesi di operai zelanti di complimenti per i superiori, ma dalle capacità limitate) incapaci di eseguire un lavoro difficile… quindi si rassegna e concede un aumento della paga, oppure una mezza giornata libera…

 

Occorrerà attendere la fine del XIX° secolo per vedere sparire i “sublimi”. Saranno numerose le istanze chiamate a partecipare alla messa a morte del loro desiderio di libertà: il padronato (grazie all‘adozione del “sistema Bedaux”, cioè la prima forma di “tempismo e misurazione delle mansioni” poi adottata dalla FIAT al Lingotto, vale a dire una forma europea ibrida di taylorismo), le donne, il giardino, il week-end, il risparmio, il mutuo della casa, le campagne contro l’alcolismo, la repressione post-comunarda, l’identità del lavoro, tutto contribuirà a fissarli. Nel 1884 i sindacati verranno autorizzati, fin da subito prenderanno posizione contro i “sublimi” ed i loro comportamenti. I primi giornali sindacali disapproveranno la pratica del “Santo Lunedì”. Era ormai giunta l’epoca dell’operaio disciplinato, militante e “responsabile”. Era ormai giunto il tempo dell’operaio-massa e della forma-partito. Ciò che resta è un dubbio: non è forse possibile che i “sublimi”, indicassero una fase ovviamente transitoria (Spinoza direbbe un “modo”) destinata ad evolversi in futuro. Forse domani anche grazie a loro avremo un Quinto Stato!

 

Vorrei concludere questo intervento, citando un’affermazione perentoria, che è stata pronunciata ed attribuita a un “sublime” da Emile Zola, nel capitolo VIII° de L’Assommoir:

 

“Je veux la suppression du militarisme, la fraternité des peuples…

Je veux l’abolition des privilèges, des titres et des monopoles…

Je vieux l’égalité des salaires, la répartition des bénéfices, la glorification du proletariat…

Toutes les libertés, entendez-vous! Toutes !… Et le divorce.”